L'ECONOMIA

L’economia della Val Gandino è stata da sempre caratterizzata dall’intensa attività agricola e dai numerosi allevamenti, che hanno sfruttato la morfologia del suolo, a tratti pianeggiante e a tratti montuoso. Successivamente, verso il XVII° secolo, l’industria manifatturiera e, più tardi, quella tessile, hanno preso le redini dell’economia locale, influenzando la produzione degli altri settori. Il settore secondario ha, fino ad oggi, assunto un ruolo primeggiante, nonostante le numerose difficoltà incontrate, dalle quali è sempre riuscito a riemergere.

In seguito si è preferito dare maggior spazio agli aspetti storici dell’economia locale, per permettere una lettura più chiara dei meccanismi che hanno caratterizzato la storia della valle. Nel paragrafo finale è stata comunque analizzata la situazione economica attuale.

 

Agricoltura

I tipi di coltivi e la loro produttività sono stati da sempre condizionati dallo spettro altitudinale della valle, compreso tra i 500 e i 1600 m del Pizzo Formico e dall’ampia presenza di substrati dolomitici, distribuiti a corona, da nord a est, intorno alla valle, poco adatti all’agricoltura.

Antica è la presenza delle colture, le pergamene alto medievali ci ricordano la diffusione di curtes, proprietà fondiarie formate da terre domeniche a conduzione diretta e da terre massaricie, ripartite in aziende contadine unifamiliari, condotte da coltivatori liberi o servi, tenuti alla corresponsione di canoni e alla prestazione di opere sulle terre domeniche.

I grani e, soprattutto, le colture foraggiere e i boschi hanno dominato il paesaggio vegetale, mentre legata ai periodi più caldi è stata la presenza della vite. Nel frammento dello statuto di Leffe (1290) si fa menzione di una vigna Negrelli che si trovava presso la valletta di Cazzano.

Nel capitolo 49 dello Statuto di Casnigo, richiamato da Giovanni Zambetti si

«prescrive ai Consoli di assegnare ad ogni famiglia una certa quantità di terra comunale coll’obbligo di allevarvi piante fruttifere, compresa l’uva. Anche il Comune di Gandino, nel 1447, volle che si piantassero viti nelle ripe di Peia e diede ad ogni abitante facoltà di prendere fino a tre pertiche di terreno per farvi tale piantagione. Vi si posero attorno con molto ardore i contadini; ma i risultati non corrisposero agli sforzi e può essere che d’allora non vi si sia più pensato a dare importanza alla coltivazione della vite. (…) Ora di viti non ci è quasi più traccia. Successe a loro in Val Gandino quello che avvenne agli olivi nel 1200 verdeggianti e vigorosi a Bergamo e né suoi dintorni: il clima inasprito li disseccò e non permise più che vi crescessero (1)».

La descrizione di Giovanni da Lezze (1596) evidenzia la contenuta produzione rispetto ai bisogni della popolazione, che superava i 10.000 abitanti:

«Il paese è più tosto sterile che altrimenti, raccogliendosi grani cioè formento, milio, castagne et vini per tre mesi del anno (2)».

I vini erano prodotti a Cene e Vertova, allora aggregati alla Val Gandino.

L’area più vocata al seminativo era il terrazzo di Casnigo, che Celestino da Bergamo (1617) definisce « assai grande, e ferace (3)», mentre lo Zambetti così lo tratteggia:

«si dispiega fino a quella punta detta il Castello. E’ il famoso Agro, la più larga campagna della valle, un vero granaio, dove non sai più ammirare, o la struttura capricciosa o l’attività produttiva. Vago sfondo all’Agro sono graduate alture ilari, snelle, tutte luce e verde, messe a pascoli ed a castagni annosi e, più da lungi, il grazioso Santuario di Altino, dolce meta di devoti pellegrinaggi e sospiro del viandante, che percorre la silenziosa Valrossa (1)».

La valle fu una delle prime zone lombarde ad avviare la coltivazione del mais: nel 1632, in un campo nei pressi di Gandino, ne fu sperimentata la coltivazione. Il testimone oculare, Giovanni Battista Radici, così descrive l’evento:

«Fu seminato il primo campo di Melgotto nel terreno chiamato la costa sotto corno in contrada di Clusvene, e tutti andavano a vedere il seminato nuovo di detto grano mai più veduto in Italia, dopo ne fecero semenze; e fu portato in paese da un forestiero (1)».

La tradizione vuole che i campi di mais della valle siano stati i primi in assoluto nella nostra provincia e nella Lombardia, ma recenti studi hanno avanzato l’ipotesi che le prime coltivazioni di granoturco risalgano al secondo decennio del seicento, qualche anno prima dell’esperimento di Gandino. In ogni caso il tentativo locale fu tra i primi del bergamasco.

La coltura del mais indusse numerosi cambiamenti: modificò l’architettura delle cascine, gli stili alimentari, i contratti agrari, i colori della campagna, sostituendo al giallo estivo delle stoppie il verde brillante degli alti culmi del cereale americano. In breve tempo la sua coltivazione si diffuse ovunque. Il Maironi, nelle sue Osservazioni sul Dipartimento del Serio (1803), scrive a proposito dell’“esplosiva” diffusione del mais:

«Oggidì vedesi crescerne sensibilmente la introduzione nelle vallate; e a questo uopo que’ miseri abitatori impiegano tutti i piccolissimi ritaglj di terreno, che sovrastano agli alti poggi, e immediatamente ai più orridi precipizj. Fu raccapriccio il considerare come per raccogliere in un dì pochi pugni di grano, metta a pericolo quella povera gente moltissime volte la propria vita (4)».

La spinta a realizzare tali estreme e pericolose coltivazioni era la resa media della pianta, che superava di due o tre volte quella del frumento. In pochi anni il mais sostituì molte altre colture anche perché, come esprime in modo sintetico, me efficace, Gabriele Rosa (1858), il colono

«di questo esclusivamente si nutre (5)».

Nella preziosa opera di Paul Scheuermeier “La Lombardia dei contadini” (6), nell’approfondimento etnografico relativo a Gandino effettuato nel 1932, viene riportata la dieta giornaliera degli agricoltori, che prevedeva tre o quattro volte al giorno la polenta: a colazione, alle 5-6, con il latte; a pranzo, alle 11-11.30, con formagella o stracchino; a merenda, alle 15-15.30, fredda con formagella (questo pasto lo si faceva in estate quando si produceva il fieno); la sera, in alternativa alla minestra.

La situazione del paesaggio vegetale dei singoli centri, nei primi decenni dell’ottocento, ci è descritto da G. Maironi da Ponte (1817).

Casnigo: «e il suo territorio per tutta la parte, che è in pianura, viene coltivato a biade ed a gelsi, ed è fertile assai; la parte poi, che si estende sulle pendici, che ha al nord-est, o che si caccia fra esse, resta tutto a prati, a pascoli ed a boschi. Quindi moltissimi fra i suoi 1.600 abitanti sono agricoltori, pastori, o mandriani »;

Cazzano S. Andrea: «resta in una campagna fertile e ben coltivata a biade »;

Gandino: «il suo territorio nella parte che resta sul piano è assai fertile, e ben coltivato a biade segnatamente; ed il resto che si estende sulle falde montuose circostanti è tutto a boschi e a pascoli »;

Peia: «consistendo in pascoli la massima parte del suo territorio »;

Leffe: «il suo territorio in non piccola parte è coltivabile a biade: nel resto è tutto bosco d’alto e basso fusto, ed a pascolo (7)».

 

Allevamento

L’allevamento, come in tutte le società antiche, ha svolto un ruolo molto importante nell’economia della valle, concorrendo, fino all’arrivo dell’industria, ad assumere il primato. Questa attività ha caratterizzato l’intero territorio, la cui testimonianza è data dalle numerose cascine e baite che sorgono dall’immediata periferia dei comuni fino alle sommità dei monti.

Di maggiore interesse è stato l’allevamento montano, praticato mediante il pascolamento delle mandrie e dei greggi, il quale ha trovato un importante presupposto nella conformazione della valle, con le sue numerose zone pianeggianti poste sui crinali della catena montuosa che circonda la vallata. Gli spazi aperti vocati all’allevamento del bestiame erano differenziati in tre categorie principali: monti (muc’), dove si pascolava solamente, i prati (prac’), dove si falcia, e i prati magri (segàbui), collocati su pendii impraticabili dal bestiame dove lo sfalcio permetteva la produzione di un fieno magro, che veniva poi mescolato con foraggio di migliore qualità.

Malga (Bm3) in località San Martino

Malga (Pm7) in località Poiana

Malga Rizzani (Gm9) in località Monticelli

Gli animali maggiormente pascolati risultano essere, senza alcun dubbio, il bovino e la pecora. Data la fiorente attività manifatturiera, svolta nella valle già dai primi secoli dopo il mille, è del tutto legittimo immaginare come gli ovini locali avessero rivestito un ruolo fondamentale per la produzione, in quanto la materia prima, ossia la lana, proveniva dalla tosatura di questi animali. In conseguenza al forte resoconto economico dei pastori che intraprendevano tale attività si presume come l’ovino abbia invaso velocemente i numerosi pascoli disponibili.

Una breve citazione di Marco Marangoni, in “Alpeggi in provincia di Bergamo”, ha permesso di dimostrare che una parte delle lane lavorate nelle aziende tessili della Val Gandino proveniva dai pascoli locali. Nel paragrafo dedicato alla pecora bergamasca (argomento qui trattato successivamente), in merito all’origine dell’industria tessile in Bergamo, si legge che:

«L’industria si trasferì quindi nella Valle Seriana, a Gandino in modo particolare, perché i valligiani acquistarono i soggetti dai frati [ndr: furono essi ad importare la pecora bergamasca] ed incominciarono ad allevarli nelle loro zone, utilizzando i pascoli scoscesi e scarsi e non adatti ai bovini (8)».

Ad arricchire la tesi è intervenuto il libro “Gandino e la sua valle”, anche se limitato al solo Comune di Gandino. Nel quattrocento, in merito alla provenienza della lana da destinare all’industria tessile, è stato scritto che:

«La materia prima lavorata era in parte di produzione locale, come attesta la diffusione dell’allevamento di pecore (tabella sottostante): molti sono i malgarii che posseggono greggi di oltre 50, fino a 140 pecore (…).

Parte della lana era sicuramente importata, soprattutto dalla Valsugana (…), oppure dal veronese (…) (9)».

ANIMALI

PECORE

2544

POSSEDUTE DA 36 CONTRIBUENTI

GIOVENCHE

479

POSSEDUTE DA 107 CONTRIBUENTI

CAPRE

158

POSSEDUTE DA 31 CONTRIBUENTI

CAVALLI

112

POSSEDUTE DA 73 CONTRIBUENTI

ALTRI

73

N° COMPLESSIVO DI ANIMALI

3366

N° CONTRIBUENTI CHE POSSIEDONO ANIMALI

167

Tab. 1 – Animali della valle

 

Bovino di razza "bruna alpina"

L’allevamento ovino era di gran lunga più consistente di quello bovino, ne da conferma un’altra citazione del precedente testo: nel secolo successivo, all’interno del perimetro comunale,

«I pochi bovini bastavano per l’autoconsumo di latte e di prodotti caseari, nonché naturalmente per il consumo di carne, e per lavorare le piccole pezze di terra di proprietà dei vicini. Le pecore e gli equini erano invece funzionali all’industria e al commercio della lana.

L’affittuale (…) doveva inoltre tener pulite le pozze d’acqua per l’abbeveraggio delle bestie e curarne gli argini (9)».

Emerge così la necessità di analizzare le forme di proprietà cui erano soggetti i territori montani e le forme di esercizio della pastorizia.

«Risulta nettamente la prevalenza dei beni boschivi e pascolavi rispetto agli arativi. I pochi arativi nella piana sotto i monti risultano essere di privati [ndr: in essi venivano coltivati per lo più cereali e legumi]. I monti e i pascoli sono invece per la maggior parte di proprietà del Comune. E’ questa una situazione tipica delle zone di montagna. (…). Il limite estremo superiore è quello dei boschi comunali dove, come si è visto, si esercitano gli usi civici (in particolare quello del legnatico). Una parte di questi beni era infatti destinata all’uso comune, veniva cioè utilizzata collettivamente dai proprietari e possessori di fondi esistenti nel territorio del comune stesso. Si tratta di una consuetudine antichissima (9)».

I pascoli e i segaboli (prati da taglio) venivano solitamente affittati ai pastori, e con essi le bestie da pascolo, con concessioni a cadenza triennale o quinquennale. Ma non tutti i pascoli comunali erano in affitto, una parte era infatti lasciata a disposizione di coloro che possedevano malghe e animali nelle vicinanze degli stessi.

E’ molto probabile che la stessa organizzazione, sia del territorio che del regime di proprietà, fosse adottata anche nei comuni di Leffe, Peia (che divenne comune autonomo solo nel 1531, quando si separò da Gandino), Bianzano e Ranzanico.

Vista sulla Val Gandino da località San Martino

Pascoli in località Cà Spess

Attualmente la Comunità Montana della Valle Seriana, mediante il Piano di Assestamento dei beni silo-pastorali, individua tutti quegli appezzamenti di proprietà comunale che possono essere rilasciati ai privati mediante affitto, per svolgervi attività di pascolo e di taglio dei boschi. Si fa riferimento all’”allegato F” (10).

Nella Val Gandino l’allevamento ovino si è, oggi, ridotto notevolmente a causa delle numerose crisi cui è andato incontro il settore tessile e per l’importazione di lane più pregiate da altre paesi. I numerosi pascoli vertono per lo più in stato di abbandono e quelli che continuano ad ospitare tale attività sono invasi per lo più da mandrie di bovini.

La pecora bergamasca

Merita un discorso a parte la pecora bergamasca, la razza ovina allevata dai pastori di Bergamo almeno sin dal 1300, periodo a cui risalgono le prime notizie. Questo animale provenne dal Sudan ma, con il passare dei secoli, ebbe modo di selezionarsi naturalmente, in un ambiente completamente diverso da quello di provenienza, divenendo molto rustica, di forte e robusta muscolatura, di pesante ossatura.

La pecora bergamasca

La pecora bergamasca non è una razza da latte, perché il poco che produce serve solo per l’alimentazione dell’agnello nel suo primo mese di vita, ma da carne, in quanto risulta essere molto pregiata e con alte rese. In origine, però, il suo fine primo era relativo alla produzione di lana, con la quale i frati, che avevano importato la razza, confezionavano i loro indumenti, grossolani, ma molto pregiati a quei tempi. Successivamente essa si diffuse nelle valli bergamasche, specialmente in prossimità delle fiorenti aziende tessili, facendo verificare uno sviluppo veloce della pastorizia. Il Cantù, in “Storia di Bergamo e della sua provincia” (1859), notava che, nel 1617,

«la Val Gandino con 13 mila abitanti contava 24 mila pecore, quasi due per abitante, e vi alimentavano le fabbriche di panni (11)».

Il declino della pastorizia bergamasca cominciò alla fine del XVIII secolo e proseguì nella prima metà del XIX secolo, per poi conoscere un vero e proprio collasso alla fine di quest’ultimo. La causa principale provenne senza dubbio dalla crisi del lanificio, ma anche dalla crescente difficoltà nel reperire pascoli invernali, in ragione della rinnovata spinta dell’agricoltura di fine secolo verso la commercializzazione e specializzazione delle produzioni. Ulteriore causa del declino fu lo scoraggiamento della pastorizia, dato dalla tassazione eccessiva che colpiva i pascoli di montagna. Nella Val Gandino si può riscontrare tale fenomeno confrontando i 34 ovocaprini presenti nel 1970 con i 21 del 1996 (credo che tali dati siano però riduttivi, probabilmente fanno riferimento ad un censimento non totale). Nell’unico pascolo segnalato nell’area di progetto, ovvero quello presente in località Monticelli, si registrano 3 capi di ovocaprini nel 1970, mentre nel 1996 risulta essere abbandonato.

Negli anni sessanta venne istituito il libro genealogico di razza e questo contribuì al miglioramento genetico e produttivo: il mercato si ampliò, tanto che nel ’97 il patrimonio bergamasco è salito a 34.500 capi. La pecora si alleva in diversi Comuni, specialmente nell’alta Valle Seriana, tra i quali anche Gandino.

Anche se i tempi sono molto cambiati, l’allevamento ovino è per lo più ancora transumante dal piano alla montagna e viceversa. Il numero di capi negli alpeggi è aumentato, grazie alla capacità di questi animali di utilizzare completamente il foraggio prodotto in zone anche molto impervie, dove i bovini non possono arrivare. Le pecore hanno poi il vantaggio di essere animali molto rustici, potendo vivere sempre all’aperto (anche in caso di intemperie), e di esigere meno acqua rispetto al bovino.

Le favorevoli caratteristiche dell’ovino e la crescente richiesta di carni da macellare contribuiscono a tenere in vita un’attività, le cui origini si perdono nella storia, che ha da sempre caratterizzato le montagne bergamasche.

Alpeggi

Grazie alla conformazione dei crinali della Val Gandino, che hanno facilitato la diffusione di questa attività, sono stati realizzati pure degli alpeggi, attualmente se ne possono contare cinque. A differenza del pascolo normale, queste strutture hanno caratteristiche proprie ben precise, sono quindi da considerarsi vere e proprie aziende di montagna, provviste di adeguate strutture, sulle quali si porta il bestiame per 80-90 giorni d’estate. Pur essendo un utile complemento dell’azienda di fondovalle, l’alpeggio ha una sua completa autonomia dal punto di vista economico e gestionale.

Alpeggio Monticelli (Gm1) nell'omonima località

I pascoli del Campo d'Avene

Malga Ceresa (Pm4) in località Poiana

Validi testimoni della fiorente attività pastorizia sono le baite (o malghe) che, con le relative stalle, ospitavano i bovini e davano alloggio alla famiglia del pastore. In queste abitazioni veniva lavorato il latte al fine di produrre i formaggi (venivano conservati nelle casere), che contribuivano al sostentamento grazie alla vendita effettuata a valle. La tradizione casearia è stata conservata in alcune di queste malghe che, tutt’oggi, mettono in vendita i loro prodotti al pubblico.

I numerosi pascoli sono ormai lasciati in gran parte all’abbandono a causa di un’economia che, nell’arco di pochi decenni, ha rivoluzionato le tradizioni locali. Sono comunque ancora evidenti mandrie di bovini al pascolo, spesso nelle vicinanze delle pozze da abbeverata, considerate anch’esse come elemento del territorio antropizzato.

Gli alpeggi di proprietà comunale sono stati individuati nel Piano di Assestamento dei beni silo-pastorali, curato dalla Comunità Montana locale, che ne ha fatti emergere ben cinque: Campo d’Avene, Botta Alta, Comunaglia-Colombone, Grumello e Monticelli. Per dati più dettagliati si rimanda all’“allegato F – Piano di assestamento dei beni silvo-pastorali” (download a fondo pagina) (10).

 

Roccoli

Roccolo (C2) in località Valle delle Sponde a Casnigo

La caccia fu, lungo i secoli, una componente importante della vita bergamasca. Ai principi e ai signori era riservata la caccia grossa, con speciali attrezzature per le battute, mentre i contadini dovevano accontentarsi di cacciare tutto ciò che non rientrava nella terra del signore. Nasce quindi dall’ingegno della povera gente l’idea di catturare i volatili mediante l’uso di reti, giunta dall’attenta osservazione del passo e delle direttrici di migrazione degli uccelli, che fece intravedere larga possibilità di cattura.

Nel tempo, al primario fine di diretta utilità, l’uccellagione assunse anche il carattere di piacevole occupazione autunnale della villa signorile. Resta comunque che la caccia fu, per la gente contadina, un complemento di vita, attuata con comodità varie secondo zone più che secondo ceti e classi sociali, e con i mezzi che l’abilità inventiva e la tecnica via via misero a disposizione.

L’attività venatoria si svolgeva nel periodo autunnale, da metà settembre fino alla fine di novembre, periodo che permetteva una certa intervallanza con il lavoro nei campi. La cura del roccolo e la preparazione dello stesso avveniva però lungo l’intero corso dell’anno, anche se non intensamente: il tondo era soggetto a potatura e, eventualmente, a piantumazione già a partire dalla primavera e gli uccelli dovevano essere mantenuti e curati quotidianamente.

Dati i numerosi roccoli presenti sui monti attorno alla Val Gandino si può facilmente capire il peso che essi avevano nell’attività economica della valle. Gli uccelli catturati venivano portati occasionalmente a valle per essere poi venduti come alimento o come richiami. Generalmente i roccolatori, per raggiungere il fondovalle, praticavano le vie di comunicazione già esistenti, quali sentieri e mulattiere, e preferivano collocare i propri impianti di cattura nelle loro immediate vicinanze, per facilitarne il trasporto.

Roccolo Astori (G10)

La maggior parte dei roccoli della Val Gandino era in possesso ai signori della zona, i quali li davano in gestione ad un roccolatore, che risultava quindi un dipendente a tutti gli effetti. Questo avveniva per via degli ingenti costi che prevedeva la costruzione e la preparazione del roccolo, si pensi solo al reperimento dei materiali da costruzione e al loro trasporto nelle zone più inaccessibili, nonché la piantagione degli esemplari arborei che costituiscono il tondo. Una prova di questo regime di proprietà sono i numerosi roccoli intitolati con i cognomi dei proprietari dei lanifici locali, quali, ad esempio: il roccolino Moretti, il roccolo Motta, il roccolo Rudelli, i tre roccoli Testa presso il Monte Croce. Inoltre, almeno un paio di impianti di cattura della valle sono da attribuire al Consorzio della Misericordia, un’istituzione religiosa di beneficenza di Gandino dalla capacità economica notevole, che riuscì a sostenere le proprie numerose spese grazie ad un’abile politica finanziaria. Essi si collocano in località Monticelli e presso la Forcella di Ranzanico, all’interno dell’area ecomuseale.

Per ulteriori nozioni sui roccoli si rimanda alla sezione Il roccolo - Introduzione, mentre per la descrizione e le considerazioni sul censimento degli impianti della Val Gandino si consiglia di consultare la sezione I roccoli della Val Gandino

 

Industria

Il settore tessile ha costituito, per numerosi secoli, la principale fonte economica della Val Gandino, anche se con diversi periodi di crisi. Risulta interessante analizzare i punti più importanti della storia di questo ramo del settore industriale.

Museo del Tessile di Leffe

I panni provenienti da questa valle godevano di fama già verso la fine del XII° secolo, segno di un’attività tessile molto fiorente e ben consolidata. In quel periodo l’ordine degli Umiliati fondò delle case tessili anche in Val Gandino e insegnò l’abilità nel commercio. Fu con il ritorno in Lombardia di questo ordine religioso, costituito dai nobili sconfitti da Enrico II che dovettero rifugiarsi in Germania per purificarsi dai propri peccati, che furono fondate le prime case manifatturiere, garanti delle tecniche apprese nello stato tedesco. La prima fu fondata a Bergamo nel 1162, ma nell’arco di quarant’anni se ne contavano già una ventina, sparse in tutto il territorio bergamasco. Dopo aver avviato la lavorazione della lana gli Umiliati si dedicarono al commercio su vasta scala e a pubblici uffici, assumendo l’appalto dei dazi. Per quattro secoli furono i dominatori delle attività economiche, finché Papa Pio V sciolse l’ordine a causa del rispetto delle regole che era venuto meno.

Questa decisione e una politica dei dazi eccessivamente protezionistica portarono alla prima grande crisi tessile in Bergamasca. Verso la metà del cinquecento il lavoro venne drammaticamente a mancare e i primi a farne le spese furono gli abitanti della Valle Seriana: in pochi anni più di trentaduemila persone lasciarono le sponde del Serio per trasferirsi nello stato di Milano o in Piemonte, dove erano assai apprezzati per la loro abilità nel lavorare la lana. Alla fine del cinquecento, comunque, i panni prodotti in bergamasca ripresero con successo e intrapresero in gran quantità la via dell’estero, verso la Germania, la Svizzera, l’Ungheria e l’Oriente. Tra i maggiori centri di produzione c’erano i paesi della Val Gandino, primi fra tutti Gandino e Leffe.

La produzione laniera aveva raggiunto il suo boom nel seicento, un secolo più tardi il settore reggeva ancora assai bene il passo. In particolare erano le imprese belliche, stante la richiesta pressante di divise e di coperte, a mantenere in salute questa industria. E’ in questo periodo, tra l’altro, che muovono i primi passi aziende destinate ad entrare nella storia dell’industria tessile bergamasca con un ruolo di primo piano. Non a caso il boom esplose in Val Gandino e i pionieri si chiamavano Radici, Testa, Fiori, Spampatti, Giovanelli, ecc.

Bortolo Belotti ha annotato:

«Nel seicento e nel settecento i basoni Giovanelli con la loro lana raggiunsero tale prosperità economica – a Venezia, nel Tirolo e in Austria – da divenire banchieri degli stessi imperatori (12)».

E Francesco Gandini, nel suo “Viaggi in Italia” del 1832, scrisse:

«Nella Valle Seriana vi è la ricca terra di Gandino con 3.500 abitanti, grandi manifatturieri in tessuti di lana, in concerie di pelli, in tintorie specialmente di scarlatto, e dediti all’eleganza e al lusso come nelle città (13)».

Il seicento sarà ricordato come il secolo d’oro della lana e con esso anche Gandino, il maggior centro laniero di tutta la bergamasca e tra i maggiori d’Italia. Roberto Radici scrisse:

«Il centro di raccolta e di distribuzione erano le case stesse degli industriali, la cui caratteristica architettura ad ampie gallerie e a loggiati aveva appunto lo scopo di assolvere alla bisogna. Partiva di qui la lana che veniva filata nelle case stesse degli operai coll’arcolaio o macchina simile: rientravano i filati e qui si provvedeva alla preparazione dell’ordito per la tessitura. Ogni famiglia aveva il suo telaio che veniva tramandato tra le generazioni fino quasi ai giorni nostri, metà del secolo ventesimo. Ogni industriale aveva poi a sua volta, nel fondo valle, presso la roggia Concossola, dei locali dove si compivano le operazioni per le quali era necessaria l’acqua; così il lavaggio della lana e dei tessuti, la tintoria, il follo. Successivamente le pezze di tessuto dopo essere passate dagli stendaggi, facevano ritorno alla casa del proprietario dove subivano le ultime e laboriose operazioni di rifinitura. Si facevano: la garzatura a mano con mannelle di garzi vegetali, la cimatura con lunghe forbici a molla, la stiratura, da ultimo, infilando il tessuto e pressandolo sotto un torchio tutto in legno (13)».

Interno di un'industria laniera

Si era però alla vigilia di una nuova crisi causata dalla concorrenza sui mercati, che si era fatta agguerrita e qualitativamente temibile. La produzione dei panni di lana nella Bergamasca ricevette così i primi duri colpi della politica economica del re di Sardegna che, come ricorda Bortolo Belotti,

«con gravissimi dazi di protezione allontanò dal suo Stato i troppi forestieri e specialmente i bergamaschi; poi, concedendo privilegi ed esenzioni, attirò operai specializzati da tutte le parti d’Europa, favorendo così nel suo stesso territorio l’impianto e il perfezionamento delle fabbriche (12)».

Numerose erano le circostanze che concorrevano a rendere vita difficile alla produzione bergamasca, tra le quali la concorrenza straniera, che si fece poi sentire con l’arrivo sui mercati di nuovi prodotti, la scarsa quantità e qualità delle lane nei territori della provincia e i pesanti dazi interni. Solo nel 1785 Venezia concesse il privilegio dell’esenzione del dazio, ma limitato ai panni prodotti in Val Gandino: già molto se si considera che la zona era la regina della produzione. Gli effetti non tardarono a manifestarsi.

L’inizio dell’ottocento trova però nuovamente il lanificio in uno stato di depressione, soprattutto per via della diminuzione dei pascoli, del rincaro dei fieni, del minor numero delle greggi e, quindi, dei velli prodotti localmente e che erano tanto più preziosi proprio per la stasi e la confusione dei commerci con l’estero. Alla metà del secolo l’industria della lana in Lombardia resisteva, « benché in modeste proporzioni, solo in bergamasca (12)».

Successivamente si registra un’ulteriore ripresa. La zona di Gandino contava allora 27 stabilimenti, i quali cominciarono a darsi una struttura industriale attrezzandosi con nuove macchine. Bortolo Belotti scrive:

«a Gandino, per esempio, dove Pietro Campana aveva introdotto l’impiego dei cascami di seta per la fabbrica di coperte da letto, esistevano sei fabbriche con macchine per cardasare, filare, tessere, feltrare, ridurre a pelo e raderlo, altre parecchie fabbriche minori colla finitura a mano. Vi lavoravano 115 telai sussidiati da 45 macchine “sistema Jacquard” producenti sino a 8.000 pezze annue di panno, in massima parte però grossolano per la popolazione meno abbiente, e vi si fabbricavano inoltre 15.000 coperte che si vendevano a due lire l’una e altre di maggior pregio per un valore di circa 36.000 lire l’anno (12)».

In quel periodo la Val Gandino dava lavoro, con i suoi lanifici, a « ben 10.000 addetti su una popolazione di 15.000 anime (12)». Nello stesso periodo cominciavano ad imporsi anche oltre i confini della provincia la “Marco Ghirardelli” e la “Fratelli Radici”. Ma questa situazione non durò a lungo. 

Via degli Opifici, Gandino

Lanificio Radici, Gandino

Ci volle la fine della Grande Guerra per ridare impulso alla lavorazione della lana, poiché l’esercito si dimostrò buon consumatore di lane resistenti e di poco costo. Ma ormai il primato bergamasco nel lanificio era ormai perduto.

L’attività industriale svolta nel comune di Leffe si differenzia da quella di Gandino poiché era improntata sulla tessitura. I due comuni svolsero comunque un ruolo fondamentale per l’economia della valle, l’uno nella produzione di coperte, l’altro nella lavorazione della lana. Difatti, verso la fine dell’ottocento, il primo contava ben 40 fabbricanti di coperte.

La leggenda attribuisce lo sviluppo dell’industria delle coperte ad un soldato tedesco che, dopo essere stato a lungo ospitato da una famiglia del posto, volle ricambiare i molti favori ricevuti svelando il segreto di lavorare il cascame di cotone con la juta.

Negli anni successivi alla rivoluzione francese la produzione ebbe una sviluppo notevolissimo e il prodotto prese il nome di “catalogna”, che incominciò ad invadere tutti i mercati. Ma verso la fine della Prima Guerra Mondiale, quando si fece sentire la spietata concorrenza di Prato, arrivò la crisi. Ma essa non durò perché la grinta dei leffesi sostituì la catalogna con i prodotti Jacquard.

La situazione attuale del settore secondario, riferito all’intera valle, è stata riportata nell’apposito spazio a fine paragrafo.

Le ricchezze che l’industria e il commercio portarono nella valle permisero ai grandi proprietari di investire su opere che miravano ad abbellire i comuni, come ad esempio i loro palazzi e la famosa Basilica di Gandino. Oggi, numerose di quelle fabbriche che fecero la ricchezza della valle sono considerate dei veri e propri esempi di archeologia industriale, anche se nessuna è stata soggetta a tutela da parte del decreto legislativo 490 del 1999. La maggior parte di queste è tutt’ora in funzione, tranne qualche raro caso in cui la fabbrica abbandonata meriterebbe maggiore considerazione, magari con la proposta di rifunzionalizzazione, anche a scopi diversi dall’originario.

Lanificio Rudelli, Gandino

Lanificio Maccari, Gandino

Manifattura Trapunter, Leffe

Manifattura Aristide Martinelli, Leffe

 

Commercio

La presenza degli Umiliati ha lasciato numerose tracce nel territorio, soprattutto nelle leggi che regolavano i commerci, i quali, per quanto riguarda la Val Gandino, interessavano principalmente i prodotti manifatturieri. Alla loro organizzazione, ad esempio, si deve la speciale considerazione in cui erano tenuti i prodotti di lana bergamaschi, dotati nel 1248 di un “marchio di qualità”: il “pannum bergomense” doveva essere prodotto senza alcuna aggiunta di peli di bue, d’asino o di cavallo, “né di cascame di panno o pelo di fallo”. Questi frati erano geniali non solo nell’organizzare il lavoro, ma anche nel vendere i prodotti e, soprattutto, nel farsi pagare. Essi furono inoltre anche abilissimi esportatori e per vendere i loro panni numerosi abitanti della valle si spinsero sino nel Sud Italia. A Napoli diedero subito loro un nome, “bergamini”, che divenne poi comune per indicare i pastori, i garzoni, gli addetti alle bestie da latte, ma anche i venditori di panni di porta in porta.

Assai più tardi sarebbero diventati famosi i “copertini” di Leffe. I venditori leffesi di coperte partivano dal paese a coppie, il carro talmente carico da rischiare di ribaltare. Frequentavano fiere e mercati di tutta Italia ed erano chiamati “cantambanchi”: li si incontrava da primavera fino ad autunno inoltrato. 

I copertini di Leffe - foto storiche

Pino Capellini, in “Il Serio”, racconta:

«I copertini leffesi non erano venditori ambulanti da strapazzo; non si limitavano ad esibire la merce, ma per arguzia innata e mente sveglia attiravano a sé i clienti gareggiando in sveltezza e abilità oratoria con ciarlatani e imbonitori. Chi saliva sul carro offriva la merce scalando rapidamente i prezzi a seconda delle reazioni della clientela; a terra il compagno si dava da fare per convincere l’acquirente a prendere la merce perché l’occasione era unica (…). A sera i cantimbanchi dormivano sul loro carro e il materasso era la merce stessa (…). In pratica a lungo non ci fu industriale a Leffe che non fosse andato da un paese all’altro col carro. Un apprendistato che si rivelò sempre utilissimo (15)».

Così li ha descritti, invece, Guerrino Masserini in un saggio del 1930:

«Generalmente i coertì de Lef sono tipi spiritosi e burloni ed ognuno di essi suona, bene o male (spesse volte più male che bene), uno strumento atto a far baccano. Quando metton banco in qualche paese, l’imbonitura sembra quella caratteristica di uno spettacolo da circo equestre. Gli strumenti più usati sono la cornetta, il clarino e soprattutto il tamburo. E via a suonare; anzi a far baccano. Un baccano che raggiunge lo scopo di radunare attorno al carro delle coperte un notevole assembramento di gente… (14)».

 

Situazione economica attuale

L’assetto economico attuale della Val Gandino si caratterizza per una struttura produttiva non molto dissimile da quella propria del ventennio precedente, in cui il settore industriale, nonostante il ridimensionamento subito, rappresenta il principale asse portante dell’economia.

I dati di fonte Istat del 21 ottobre 2001 mostrano come la quota di occupati industriali rispetto al totale degli occupati extra-agricoli si sia ridotta, in confronto all’analogo rapporto che caratterizzava il decennio precedente. Ciò nonostante il livello rimane notevolmente più elevato rispetto a quello medio lombardo, che cala in modo più rapido e vistoso. In zona, così come in ambito provinciale, il peso della struttura industriale resta comunque notevolmente più elevato rispetto all’intera nazione.

Va rilevato per altro come la diminuzione della percentuale di addetti all’industria si sia realizzata anche a favore di una maggiore occupazione nei servizi, all’interno di un contesto di complessiva crescita occupazionale caratterizzata, però, da un tasso di crescita dell’occupazione inferiore a quello medio del sistema e che risente, seppur in ritardo rispetto alla realtà nazionale, dell’attuale momento di recessione. Solo nell’industria manifatturiera si registra comunque un impiego pari almeno al 50% rispetto alla popolazione attiva dell’intera valle, un dato molto rilevante.

La contrazione degli occupati dell’industria è stata parzialmente assorbita dalla crescita degli occupati nel settore edilizio (in media pari al 10% della popolazione attiva), anche se attualmente è in una momentanea stagnazione, che ha trovato occasioni di espansione non solo e non prevalentemente all’interno dell’area. E’ stato rilevato come la ricomposizione della forza lavoro tra i diversi settori abbia interessato il credito, i trasporti e gli altri servizi, ma soprattutto il commercio, con un impiego medio superiore al 10% della popolazione attiva, dato dall’intensa attività legata ai prodotti della manifattura. Mentre il settore commerciale mantiene sostanzialmente immutato il proprio peso, i settori del credito e delle assicurazioni mostrano il più massiccio incremento occupazionale del ventennio; crescite più lievi sono mostrate dal settore dei trasporti e dagli altri servizi, con in prevalenza l’istruzione, la sanità e i servizi sociali.

Tale assetto occupazionale, a cui si accompagna un adeguato sistema economico che esprime i suoi effetti in modo diffuso interessando tutto il territorio e i diversi strati sociali, rende ragione dello scarso interesse rivolto al settore primario, inteso nelle sue componenti forestale e agricola. 

Lanificio Testa, Gandino

Al riguardo si sottolinea come non esistano in area imprese esclusivamente forestali e come il governo dei boschi, in quanto ad utilizzazioni e prelievi, sia di fatto svolto dalle imprese agricole e, come nel caso di Peia, dai diversi soggetti a cui l’amministrazione cede i lotti boschivi (allegato F - download a fondo pagina).

In ordine alla dimensione del settore primario e limitando l’analisi ai dati Istat forniti dal censimento del 2006 e da altro materiale recuperato, relativi ai comuni della Val Gandino (Casnigo, Cazzano S. Andrea, Gandino, Leffe, Peia), si dimostra come il settore abbia conosciuto un’ulteriore contrazione del suo significato economico e territoriale. A fronte di un aumento di aziende, attualmente se ne contano 190, si è avuta una contrazione consistente della superficie aziendale totale e della superficie agraria utilizzata (S.A.U.), pari rispettivamente a 2403 ha e 1573 ha. Il rapporto tra la S.A.U. e la Superficie aziendale tototale, che esprime anche il grado di intensificazione d’uso delle superfici aziendali, conseguentemente si è abbassato, giungendo al 65%.

Animali al pascolo in Val Gandino

Parallelamente si è verificata una contrazione significativa nell’indirizzo produttivo zootecnico, che costituisce l’attività prevalente delle imprese agricole locali: il carico bovino ha raggiunto le 3630 unità, con un carico bovino medio per ha di S.A.U. che ha raggiunto quota 2,3. A determinare tale situazione certamente ha concorso l’attivazione della politica agraria comunitaria, tesa a favorire la dismissione di S.A.U. e la contrazione della produzione di risorse agro-alimentari, ma certamente significativa è stata la possibilità di poter disporre, da parte degli addetti o dei potenziali addetti, di opzioni alternative all’attività agricola per garantirsi adeguati redditi da lavoro.

Parallelamente alla contrazione di S.A.U. e di carico bovino s’è avuto un incremento significativo delle aziende e del patrimonio ovino e caprino, che ha raggiunto gli 840 capi; ciò, unitamente all’incremento in capi equini, 428 in tutto, che lascia intravedere una estensivazione d’uso dei suoli agricoli probabilmente accompagnata all’incremento di aziende part-time o a doppio lavoro che si sono sostituite, incrementando il numero e riducendo ulteriormente la dimensione media aziendale, alle aziende a tempo pieno, che hanno abbandonato il settore.

Ciò evidentemente torna a vantaggio della diffusione degli incolti e, potenzialmente, delle superfici forestali che si pongono come il normale assetto climatico alla dismissione di aree agricole. Ciò impone però anche la necessità di governare e pianificare tale evoluzione che non necessariamente porta, specie nel breve periodo a soprassuoli floristicamente e strutturalmente apprezzabili sul piano fisionomico e attesi dalla sempre più crescente domanda di fruizione ambientale espressa dalla società.


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1 Tratto da M. Lorenzi, Caratteri del paesaggio in provincia di Bergamo , Ferrari Grafiche s.p.a., Bergamo 2004, pag. 346-348

2 G. Da Lezze, Descrizione di Bergamo e suo territorio 1596, a cura di V. Marchetti e L. Pagani, Bergamo 1988

3 C. Da Bergamo, Historia quadripartita di Bergomo et suo territorio nato gentile, & rinato christiano , Ventura Valerio, Bergamo 1617  

4 G. Maironi Da Ponte, Osservazioni sul dipartimento del Serio 1803 , Natali Alessandro, Bergamo 1803

5 G. Rosa, Notizie statistiche della provincia di bergamo in ordine storico , Bergamo 1858

6 P. Scheuermeier, La Lombardia dei contadini, Brescia 1932

7 G. Maironi Da Ponte, Dizionario odeporico o sia storico-politico-naturale della provincia bergamasca di Giovanni Maironi Da Ponte , Stamperia Mazzoleni, Bergamo 1819-20

8 M. Marangoni, Alpeggi in provincia di Bergamo, Ferrari Editrice, Bergamo 1997, pag. 29 - Ristampa aggiornata e riveduta a cura di S. Gherardi e G. Oldrati

9 AA. VV., Gandino e la sua valle, Edizioni Villadiseriane, Bergamo 1993 1216 AA. VV., Gandino e la sua valle, Edizioni Villadiseriane, Bergamo 1993

10 Rielaborazione e riproposizione del Piano di Assestamento dei beni silvo-pastorali dei comuni di Gandino e Peia (valenza 1995-2010), depositato presso la Comunità Montana della Valle Seriana

11 Cantù, Storia di Bergamo e della sua provincia, Bornato in Franciacorta, Bergamo 1859

12 B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Ceschina, Milano 1940

13 F. Gandini, Viaggi in Italia, Luigi De Micheli, Cremona 1832

14 Tratto da F. Barbieri, R. Ravanelli, Storia dell’industria bergamasca , Grafica & Arte, Bergamo 2003, pag. 78-80

15 P. Capellini, Il Serio, Editore Cesare Ferrari, Bergamo 1985