L'AUCUPIO NELLA STORIA

L’uso delle reti come mezzo di cattura degli animali selvatici ha un’origine molto remota (1). Anticamente esse servivano prevalentemente per la cattura di quadrupedi, anche di notevole mole, data la loro fattura rudimentale, a maglia larga ma molto resistente. Solo in seguito, quando la tessitura venne effettuata con fili sempre più leggeri che permisero anche la restrizione della maglia, le reti poterono essere adibite pure per l’aucupio, ossia la cattura degli uccelli, al quale ben si adattavano. Questa applicazione, data la buona rispondenza, attraversò i secoli, giungendo fino ai nostri giorni (2).

Le testimonianze conducono ad una pratica diffusa dell’uccellagione già presso le culture classiche. Ne sono testimonianza i bassorilievi, raffiguranti scene di utilizzo delle reti a fini venatori, risalenti addirittura dall’antico Egitto. In seguito Confucio e Platone, che manifesta la propria disapprovazione, accennano al loro utilizzo, mentre Virgilio giunge a raffigurare il suo eroe Enea all’alba mentre, in compagnia Didone, si addentra in un bosco in cui sono presenti delle reti, da poco montate dalla servitù. Anche i romani fecero un largo uso delle reti, sia per la caccia agli animali di grossa taglia, come l’orso nel Medio Oriente e il leone nelle terre africane, sia per la cattura degli uccelli, già allora molto praticata con ogni mezzo di insidia. Gli scritti di Marziale e di Plinio il Giovane riportano la loro passione per l’aucupio, al quale si dedicavano personalmente.

Roccolo Testa (B7) in località Cà Spess

Bisogna specificare che fino all’anno mille la caccia continuò ad essere una forma di sussistenza, quindi una necessità, o per lo meno un lavoro servile praticato dalla povera gente mossa dalla fame. Solo durante il medioevo essa divenne manifestazione di lusso e di cavalleria e quindi prova di una civiltà in continua evoluzione, come di fatti attestano arte e letteratura. Lo stesso spirito cavalleresco del medioevo esercitò la sua influenza anche sulla caccia (intesa non solo quella venatoria), e perfino i principi non si sdegnano di scriverne e di farsene maestri. Ne sono un esempio l’imperatore Federico II e tanti altri principi e poeti presi in rassegna da Ercole Strozzi nella “venatio”, uno dei migliori poemi della rinascenza.

La disciplina di caccia maggiormente diffusa nel medioevo, fatta eccezione per la grossa selvaggina (bisonte, cervo, cinghiale) che si cacciava con l’arco e frecce, era la falconeria. Gli esercizi venatori di più basso grado, e come tali consentiti anche al popolo, furono praticati dalla povera gente, che praticavano la caccia mediante l’utilizzo di reti, vischio e trabocchetti (2).

In seguito, l’uccellagione con le reti si diffuse anche fra le famiglie più facoltose, che la praticavano con abbondanza di mezzi. Per tale motivo furono fatti erigere roccoli di dimensione maestosa, taluni dei quali, sopravvissuti ad ogni devastazione, si possono tuttora ammirare nella vetusta armonia delle loro logge plurisecolari. Basti ricordare il roccolo dei Visconti, a Ligurno presso Varese, la brescianella dei conti Maggi ad Erbusco, nei dintorni di Brescia, e la brescianella del vescovo Bonomelli a Nigolina, vicino al Lago di Iseo (2).

Roccolo Pezzoli (P5) in località Poiana

Grazie a questo stimolo l’esercizio dell’aucupio riuscì a perfezionarsi: si affinò, si tramutò in passione viva e, data la perfetta conoscenza degli uccelli e l’abilità necessaria per ottenere proficui risultati, divenne un’arte. Inoltre si fece anche più ampio ricorso all’impiego di richiami, acquistandone la dove gli allevatori godevano di maggior fama (2). A testimonianza, il duca di Milano, nel 1386, incaricò il podestà di Reggio Emilia perché gli procurasse “de rovorinis, fanitis et aliis avibus parvulis a copia » e poi di nuovo, l’anno seguente, gli dette più ampio incarico di procurargli «de bonis uselatis qui sciant dulciter canere, videlicet ravarinis, fanetis, lisignolis et verzerinis» e di mandarli «in capitolis, per muntios pedestres scientes bene portare» (2).

L’uccellagione ebbe talmente successo tra i nobili da diventare una moda. Gli appostamenti furono dotati di capanni sempre più accoglienti e comodi, per potervi anche intrattenere ospiti in pranzi conviviali. Anche molte dame di corte non disdegnavano dilettarsi con l’aucupio (2), come Isabella d’Este, donna di cultura del rinascimento, le cui testimonianze ricordano che, durante una villeggiatura a Solarolo (in Emilia Romagna) nel 1535, essa usciva per diporto con le sue damigelle in un ampio prato a cacciare con le reti.

La consistente diffusione delle uccellande col sistema del roccolo e della brescianella raggiunse il punto massimo nel XVIII secolo, soprattutto in Lombardia, tanto che nel 1722 si ebbero i primi accenni alla presunta diminuzione di allodole, fringuelli e tordi. Per ovviare a tale situazione, nei centri minori del Veneto, della Lombardia, della Romagna e di altre zone dell’Italia Centro Settentrionale, fu stabilito che il possesso delle uccellande spettasse alle famiglie dei casati più noti.

Nel XX secolo, però, le tese per uccellagione si sono sensibilmente rarefatte, a causa della preferenza data a mezzi di svago più moderni ed allettanti e delle notevoli spese che un appostamento comporta. La legge 799 del 1967, che ha vietato la caccia con le reti, ha infine inflitto un colpo decisivo sul destino di tale attività e di tali strutture, che difficilmente hanno resistito alla devastazione e all’abbandono.


1 Rielaborazione di un capitolo della tesi di laurea di R. M. F. Chiesa e M. C. Mocchetti, I roccoli della bergamasca: architettura per la caccia , relatore L. Roncai, 1990/2000, tesi di laurea depositata al CEDAT del Politecnico di Milano – Bovisa

2 Tratto da P. Pieroni, Enciclopedia della caccia, Sedea Sansoni, Firenze 1967, pag. 20-21 e pag. 177-178